[11 ottobre – 15 dicembre 2018 * giovedì, venerdì, sabato: 14 – 18]
Inaugurazione giovedì 11 ottobre, ore 18.30
Umberto Fiori, Matteo Girola, Simone Monsi, Adele Pozzali, Miroslav Tichý
Nel 1856 Herman Melville scrive La veranda (The Piazza), un racconto breve e dall’incipit autobiografico.
Il protagonista si ritira tra i monti, in una fattoria la cui mancanza di una veranda gli pare “un’omissione tanto grave quanto quella di una pinacoteca priva di scanni o altro tipo di sedile”.
Immagina una veranda panoramica, che circondi per intero la casa e gli regali una vista del paesaggio a trecentosessanta gradi ma, poiché “la casa era ampia, ristretta la sua fortuna”, l’uomo si trova a dover operare una scelta. E, valutata con attenzione la vista che ogni lato della casa gli offre, contro ogni aspettativa e consuetudine, costruisce la sua veranda a nord, suscitando l’ilarità dei vicini che non comprendono il valore di uno sguardo estetico/poetico, non utilitaristico.
La veranda a nord piace a luogo_e perché è la ricerca di una “bella vista” personale, è la libertà di affermare un punto di vista altro, di gettare uno sguardo sorpreso su uno scenario sorprendente.
Luogo_e presenta una mostra che è una veranda, un punto di osservazione situato, un posto da cui affacciarsi, rimanendo al riparo. Il panorama di cui si può godere da qui è l’incontro di punti di vista e di visioni a loro volta compositi e componibili.
È una mostra sulla visione e sulle vedute, sul guardare e sul guardato, e su come sopravvivano in una contemporaneità in cui tutto sembra facile da vedere, ma difficile da guardare.
È una mostra di paesaggi e paesaggisti, a modo suo, a modo nostro. Ma non solo.
“La prima volta che guardai da questa finestra mi dissi: «Mai, mai mi stancherò di ciò»”, afferma Marianna, co-protagonista del racconto di Melville che, vivendo sempre appostata alla finestra, conosce a memoria tutte le ombre che il sole e le nuvole gettano attorno alla sua casa a qualsiasi ora, e ormai vi identifica cose e animali a lei familiari.
In Marianna luogo_e rivede il ruolo dell’artista, che con gli occhi del viso scruta il panorama, e con quelli della mente vi legge significanti, vi scrive significati. Affacciato alla propria veranda, lo sguardo dell’artista è mezzo di figurazione, di prefigurazione, di trasfigurazione. È nel contempo situato e dislocato, direzionato sul qui e ora, e diretto altrove.
Ecco perché, sebbene fedele alla sua natura di veranda, questa mostra si propone di essere anche periscopio, ovvero strumento tecnico grazie a cui poter rimanere immersi/sommersi, ma continuando a guardare al di là del limite fisiologico dell’occhio fisico, che è pur sempre sacro, ma altresì bisognoso di essere smentito e sorpreso.
La veranda e il periscopio, veduta dell’installazione
Herman Melville, La veranda, Elliot, Lit Edizioni, 2016
Umberto Fiori, La bella vista, 2002
brano XVI de La bella vista, in Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano, 2014
La bella vista, 2002
Marcos y Marcos, Milano
Bella vista, chi può negarti? Chi può credere in te? Umberto Fiori dialoga con la bella vista, la interroga. Dovrei forse io, qui, sostenerti, spiegare, prendere le tue parti? Predicarti, dovrei?, le domanda.
A luogo_e piace chi interroga lo sguardo, chi si interroga sullo sguardo, sulla vista, sul panorama che le si offre, che sia esso un dono inatteso o una meta raggiunta con fatica.
Ma non è che un interrogare ironico, confessa Fiori per telefono quando luogo_e lo chiama per chiedergli il permesso di esporre la sua bella vista. La bella vista si dà per quello che è, basta a se stessa, non ha bisogno di giustificazioni, di sostenitori, né di adesioni o confutazioni, ci lascia intendere. È l’offerta che si può solo accettare, la porta aperta che ogni giorno, insieme a tutti, io sfondo, scrive. E questo a luogo_e piace ancora di più.
Adele Pozzali, nofilter, 2018
24 stampe digitali su carta Fedrigoni Splendorgel, 15×10 cm cad., supporti in plexiglass, edizione 1/1
nofilter, 2018
libro, stampa HP Indigo su carta Fedrigoni X-Per, 24×16 cm, P.d.A (tiratura 6 copie + P.d.A.)
courtesy l’artista
Il periscopio è un prolungamento delle mani e, come la macchina fotografica, si pone davanti al viso per favorire uno sguardo d’avanguardia. Al contrario del periscopio però, la macchina fotografica restituisce un’immagine condivisibile.
L’opera nofilter si basa sulla messa in discussione di tale condivisione. Il punto di vista scelto, quello della fotografa, svela il reale aspetto di una località molto conosciuta grazie ai social media: Rosignano Solvay. Scarto di lavorazione di uno stabilimento che produce bicarbonato, il carbonato di calcio rilasciato in mare conferisce alla sabbia un biancore tropicale. I turisti visitano il luogo e condividono sui loro profili social fotografie di acque cristalline e spiagge candide, costruendo un archivio di immagini seducenti, paradisiache, ma che raccontano soltanto in parte il paesaggio reale. All’artista il compito di spostare lo sguardo.
Lake Brienz from top of Rothorn
View-Master e dischetto Sawyer’s Inc.
courtesy Collezione Antonello Andreini
Strumento di conoscenza per molti prima di noi e forse oggetto misterioso per chi verrà dopo di noi, un visore stereoscopico oggi non sembra nient’altro che un giocattolo. Ma, nel secolo scorso, è stato per decenni uno strumento per vedere. Non una macchina fotografica, il suo ruolo era passivo, nessuna possibilità di fermare delle immagini. Solo un girotondo nei ricordi o nella fantasia. Non una semplice cartolina, non ancora un film, ma già un’immagine che tende al tridimensionale, per sognare di essere nei luoghi rappresentati, tra quelle forme, tra quei colori, tra quelle persone nel loro spazio-tempo. Uno strumento illusionistico per vedere e per sognare, un periscopio.
Tra un’infinità di immagini, luogo_e sceglie un dischetto che sembra illustrare alla lettera il testo di Melville. In una coppia vista di spalle, vertiginosamente affacciata su un panorama montano, luogo_e ritrova Marianna e l’alter ego di Melville nel racconto. Lei gli indica un punto lontano, lui vi rivolge lo sguardo.
Simone Monsi, CAPITOLO FINALE: Let’s Forget About It Let’s Go Forward – From Meaning To Intensity, il ventiseiesimo episodio di Mani!! I Love Holding Hands – It’s okay for me to be here!, 2016
stampa digitale su cotone, imbottitura, MDF, 185x100x100 cm
courtesy l’artista e UNA galleria
L’uso delle mani è fondamentale per il funzionamento degli strumenti tecnologici contemporanei, quasi tutti attivati dal touch screen. Eppure, la mano che tocca, sposta e compone attraverso lo schermo è sempre più distante dall’oggetto che si dà in immagine. La mano contemporanea implementa la visione ma, per quanto provi a ingrandire l’oggetto desiderato congiungendo e allargando ripetutamente pollice e indice, questo le rimane distante. Che miri a un paesaggio (non percorso) o a un amante (non sfiorato), la mano non si appropria mai di ciò che tocca. Lo schermo è filtro, diaframma, barriera.
L’opera di Simone Monsi è una grande mano appariscente, un Golem di fotografie di tramonti – le stesse immagini colorate e sature che riempiono i profili Instagram dei moderni osservatori del cielo.
Come il Golem del mito, fatto di terra, la mano di Monsi si costituisce di materia povera, di quelle immagini che l’artista e filosofa Hito Steyerl, in The Wretched of the Screen (Sternberg Press, Berlino, 2012), ha definito poor images. È una mano esuberante, che con le sue dita e i suoi tentacoli supera lo schermo, trapassa il vetro e diviene oggetto. Nella sua nuova veste statuaria l’immagine del tramonto, da tempo ridotta perlopiù a uno sfondo inerte, ridiviene potente forma viva, che finalmente esce dallo schermo e tocca lo spazio.
Miroslav Tichý, Senza titolo, 1960-1980
stampa ai sali d’argento,16,2×12,2 cm, edizione 1/1
courtesy Galleria Six
La veranda di Miroslav Tichý è una veranda senza casa.
Tutto il mondo Tichý vede dalla sua veranda, la sua sì a 360°. Nulla possiede se non rudimentali macchine fotografiche – vere sculture new dada – e soprattutto il suo sguardo.
Tichý non guarda l’universo intero, bensì un universo particolare, quello femminile è la sua veranda a nord. Il suo è lo sguardo di chi guarda senza essere visto. Invisibile ai più, per scelta o per forza, si confonde con lo sguardo del voyeur. Le sue sono immagini còlte, spiate – non rubate. Sono gesti abituali, attimi quotidiani, situazioni personali in luoghi pubblici, carichi del loro niente, eppure non privi di una loro sensualità.
Il più delle volte sono immagini poco a fuoco, confuse e indistinte, testimonianze di un occhio escluso la cui lontananza le carica di evocazione. Nella loro indeterminatezza sono foriere di allusioni, ma comunque sempre inavvicinabili. Le immagini di Tichý sono eco di immagini. Non documentano in realtà la cosa, ma la distanza dalla cosa.
Autore sconosciuto, 1880 ca.
ferrotipo, 8,5×6 cm ca.
courtesy Collezione Linda Fregni Nagler
Con il termine rückenfigur si indica una figura ricorrente nella pittura e nella fotografia: il soggetto umano immortalato di spalle che osserva il paesaggio di fronte a sé. La funzione del soggetto, la cui identità è celata, è mostrare al fruitore dell’immagine ciò che egli vede – un espediente che permette una discreta immedesimazione psicologica.
Nel ferrotipo esposto si osserva la riproposizione ottocentesca della rückenfigur classica, ambientata in uno studio fotografico per ritratti, come si intuisce dal fondale dipinto.
Luogo_e trova in questa immagine lo strumento per una delle possibili letture dell’intera mostra: come il protagonista del romanzo di Melville, il soggetto ritratto si volta, sceglie il proprio personale punto di vista. Nell’era dei selfie, è curioso pensare a lui come a un giovane che, tentato dal rituale dell’auto-promozione in immagine, si reca in uno studio fotografico, decide di rifiutare l’immobilità del ritratto frontale, si volta e vivifica il paesaggio di carta alle sue spalle seguendone un sentiero immaginario.
Matteo Girola, Geo, logiche (fino a dove finisce la strada) #14 (Norvegia), 2012
Stampa inkjet ad inchiostri Ultrachrome Pro, su carta Harman-Hahnemühle Matt Photo Rag 308 gsm 100% cotone, su dibond 3 mm, 60×40 cm, edizione 1/5 + 2 P.d.A.
Geo, logiche (fino a dove finisce la strada) #19 (Norvegia), 2012
Stampa inkjet ad inchiostri Ultrachrome Pro, su carta Harman-Hahnemühle Matt Photo Rag 308 gsm 100% cotone, su dibond 3 mm, 60×40 cm, edizione 2/5 + 2 P.d.A.
Geo, logiche (fino a dove finisce la strada) #219 (Israele), 2012
Stampa inkjet ad inchiostri Canon LUCIA EX, su carta Harman-Hahnemühle Matt Cotton Smooth 300 gsm 100% cotone, su dibond 3 mm, 60×40 cm, edizione 1/5 + 2 P.d.A.
courtesy l’artista
Come un moderno esploratore, l’uomo 2.0 può avventurarsi in mondi sconosciuti, li può visualizzare e attraversare. Che tale attraversamento sia effettuato in senso astratto, con il pensiero, o che sia un percorso fisico sullo schermo, in entrambi i casi sottolinea una distanza. Ed è tale distanza che all’artista interessa.
Matteo Girola va in cerca dell’ultimo panorama lungo un tragitto percorso attraverso la tecnologia di Google Street View, trova l’ultima immagine catturata dalla Google Car prima di invertire la rotta. Poi seleziona un altro tragitto, lo percorre fino al limite ultimo e salva una nuova ultima vista. Ne fa una collezione. Una strada interrotta, un muro, il mare: il limite del percorribile diviene il confine della visione. La distanza può colmarsi soltanto per mezzo di un occhio corpo, che sorpassi, che scavalchi, che si tuffi.
Ma si può anche leggere nella stessa opera l’attualizzazione di un soggetto classico della pittura: il ritratto con balaustra in primo piano. Un’immagine che mostra e nel contempo ammette il proprio limite nell’avvicinare il soggetto mostrato.
[Installation view a cura di Adele Pozzali]