(_e letti altrove)
Circa un anno fa la casa editrice NERO ha pubblicato una raccolta di tre saggi scritti dal collettivo Comitato Invisibile tra il 2007 e il 2017. Si tratta di tre riflessioni sulla situazione di crisi non solo politica del mondo occidentale, intitolate rispettivamente L’insurrezione che viene (2007), Ai nostri amici (2014) e Adesso (2017).
Luogo_e si è soffermato sul primo dei tre testi, da cui sono tratte le parti in corsivo, fatta eccezione per quelle accompagnate da diverse indicazioni. In particolare è stata preziosa la lettura del capitolo Sesto cerchio. L’ambiente è una sfida industriale, che ha contribuito a chiarificare i presupposti alla base della mostra Devo riferire qualcosa che ho visto (14 febbraio – 11 aprile 2020).
Questa lettura ha innescato alcune riflessioni che vengono qui proposte ai nostri lettori come strumento di dibattito. È dunque necessario precisare che il presente scritto non vuole essere né una recensione dell’intero libro, né una sintesi del pensiero del Comitato Invisibile. Si propone, anzi, come suggerimento di lettura, per conoscere una voce fuori dal coro sui temi che si intrecciano con le questioni ambientali.
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“Anche le migliori torte sono amare
per gli esclusi dalla festa.”
Anonimo delle periferie
La grande scoperta dell’anno è stata l’ecologia. Questa affermazione è già vecchia di tredici anni, oggi solo gli imbecilli non nutrono preoccupazione per le sorti del nostro pianeta. Oggi tutti hanno ben chiari gli effetti prodotti sull’ambiente e sull’uomo da insensate pratiche economiche e sociali, soggette alle regole del profitto. Ma a pochi sono altrettanto chiare le cause di questo progressivo impoverimento dell’ambiente e della vita umana. L’ambiente è quello che rimane all’uomo dopo che ha perso tutto il resto.
È il modello di “sviluppo” che deve essere messo in discussione, assieme allo stesso concetto di sviluppo. E questo vorrebbe dire individuare le dinamiche e gli attori che perseverano in tali pratiche perverse. Gli annunci vocali computerizzati, i tram dal ronzio avveniristico, le luci bluastre dei lampioni a forma di fiammiferi giganti, i passanti agghindati da manichini mancati, il silente roteare delle videocamere, lo scintillante tintinnio degli ingressi in metropolitana, delle casse al supermercato, dei cartellini da timbrare in ufficio, l’atmosfera elettronica dei cybercafè, l’orgia di schermi al plasma, di linee ad alta velocità e di latex: mai paesaggio poté fare tanto a meno delle anime che lo attraversano, mai luogo fu così automatico, mai contesto fu più indifferente nel suo esigere altrettanta indifferenza in cambio della sopravvivenza. Pratiche che agiscono in maniera diversa in ogni angolo del globo e che prevedono ovunque un sostanziale impoverimento delle risorse e della vita materiale delle persone degli strati più poveri del pianeta, assieme agli strati sociali più deboli del “ricco” mondo occidentale.
È legittimo supporre che le soluzioni ai problemi con i quali dobbiamo fare i conti debbano essere trovate dagli stessi soggetti che li hanno provocati. […] i nostri padri furono impiegati nella distruzione di questo mondo, e adesso vorrebbero far lavorare noi alla sua ricostruzione – per giunta guadagnandoci.
L’ambiente è, di fatto, il problema globale per eccellenza e ci stanno inducendo a credere che un problema globale è un problema al quale solo coloro che sono organizzati a livello globale possono fornire risposte. Ci stanno facendo credere che siano solo loro che possono avere soluzioni, che solo nelle loro mani è la salvezza del pianeta e che l’ambiente sarà il perno della loro economia politica.
Le forme personali di autodifesa sul terreno della produzione e del consumo rimangono palliative rispetto ai guasti. Consumare meno, rispettare l’ambiente, correggere dove e come si può i guasti macroscopici dei sistemi energetici: queste restano le forme che l’impotenza si dà per non soccombere senza resistenza.
Nessuna soluzione tecnica riuscirà mai a dare soluzioni al problema ambientale, come nessun MO.S.E. riuscirà a trattenere le maree. Nessuna soluzione tecnica o specifica riuscirà mai senza una buona dose di immaginazione. E la certezza della possibilità che “un altro mondo è possibile”, anzi necessario, è testimoniata dalle continue forme di opposizione alle politiche nazionali diffuse a macchia di leopardo in ogni angolo del pianeta, da parte di piccoli gruppi o di grandi masse.
Ciò che ovunque ci viene presentato come catastrofe ecologica è sempre stato, in primo luogo, la manifestazione di un rapporto col mondo disastroso.
Contrapposizioni che, se anche partono da obiettivi particolari, si rivestono delle forme del rifiuto delle logiche di potere e di comando che difendono i privilegi di pochi, penalizzando i molti. Per lo più sono episodi che hanno la forma della ribellione, che difficilmente riescono ad ottenere vittorie se non parziali e di breve durata; perché le logiche coordinate sul terreno della politica, dell’economia e del controllo non possono tollerare forme radicali di contrapposizione. Forme sofisticate di controllo e di repressione, coordinate campagne di disinformazione e di manipolazione, stanno facendo credere che chi oggi si oppone mette in pericolo “il migliore dei mondi possibile”. Certo il più adatto a garantire la ricchezza di pochi, la felicità di pochi, la sopravvivenza di molti, la miseria di molti.
In mezzo ci sta tutta una quantità di individui arruolati alla difesa dei privilegi in cambio della compartecipazione agli utili. Fino al sopraggiungere, però, della nuova crisi, della messa in pericolo dei margini di profitto, perché allora anch’essi saranno abbandonati alle soglie delle sabbie mobili della povertà.
Dopo aver progressivamente minato le tutele delle conquiste sociali dei decenni precedenti, si fa oggi un gran parlare di “reddito garantito” a tutela dei ceti più poveri, come parziale attenuazione degli effetti collaterali indesiderati delle politiche espansive. Nessuna politica assistenziale sconfiggerà mai la povertà, la sconfitta della povertà sarà possibile solo ribaltando i processi di produzione e socializzando le ricchezze.
Il concetto di “ecologia” oggi è declinato solo nella logica della produzione e non nel significato di rispetto – dell’uomo , degli animali e dell’ambiente tutto. L’ecologia diventa ora, quindi, la nuova morale del Capitale che ci ammonisce che Se vogliamo salvare il nostro modello di civiltà “ciascuno di noi dovrà impegnarsi a cambiare i propri comportamenti”. E quindi: consumare poco per poter consumare ancora. Produrre bio per poter produrre ancora. Autoreprimersi per poter reprimere ancora. Ecco come, atteggiandosi a rottura epocale, la logica di un mondo aspira a sopravvivere a se stessa.
Ma così facendo non si curano le malattie, si medicano le ferite. E, in una situazione di perenne convalescenza, diventa assurdo sperare in una vita migliore, fatta di meno lavoro e più alti livelli di cultura, che sappiano favorire migliori rapporti sociali, creatività e solidarietà; una vita più ricca di relazioni e di conoscenze, meno competitiva e più aperta agli altri.
L’esercito dei convalescenti viene medicalizzato perché continui ad essere attivo sul terreno del consumo, in cui la cultura dei gadget sempre più tecnologici promette la massima connessione e produce il più alto isolamento e un’umanità sottovuoto.
Attenzione, quindi: l’ecologia è un problema sentito generalmente, seppur in modi differenti, nelle società del capitalismo avanzato, e su di essa il Capitale sta scommettendo per una sua nuova, ennesima riscossa.
Lungi dal temere le crisi, il Capitale cerca ormai di produrle sperimentalmente [….] Il rimedio non serve a porre fine alla crisi. Al contrario la crisi viene aperta con l’obiettivo di introdurre il rimedio […] La realtà è che non stiamo vivendo una crisi del capitalismo, ma – al contrario – il trionfo del capitalismo di crisi. (Comitato Invisibile, Ai nostri amici, 2014)
Nelle immagini:
Chiara Fusar Bassini, Senza Titolo, collage, 20 x 15 cm, 2020
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Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene | Ai nostri amici | Adesso, Roma, NERO, 2019
Comitato Invisibile
Comité Invisible è una firma editoriale collettiva. Opera prevalentemente in Francia da più di dieci anni e raccoglie contributi anche italiani. È una delle tante germinazioni rizomatiche che hanno avuto origine dalla pianta madre dell’Internazionale Situazionista e dal pensiero di Guy Debord. Una germinazione precedente al Comitato invisibile fu il collettivo Tiqqun, che diede vita alla rivista omonima di cui uscirono due numeri tra il 1999 e il 2001. Il Comitato Invisibile ne è un rizoma erede, teso a riflettere, documentare e prefigurare le forme sotterranee di opposizione radicale agli attuali ordinamenti sociali.
Luciano Passoni
Di formazione artistica, ex insegnante, ex libraio.
Oggi attivo in luogo_e.