La visione illimitata come limite • Chiara Fusar Bassini

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( _e visioni)

 

La prima immagine satellitare risale al 1959, è stata realizzata dal satellite Explorer 6 e rappresenta l’Oceano Pacifico. Risulta difficile oggi immaginare lo sbalordimento causato da quella visione che per prima superava in altezza la fotografia aerea: deve essere stato il surrogato dell’esperienza di chi è sbarcato sulla luna e ha guardato in basso. Questo entusiasmo ha però presto lasciato il posto alla necessità di riflessioni critiche: come per la maggior parte delle tecnologie, l’uso domestico di strumenti ormai popolari come Google Earth è soltanto una conseguenza del loro uso bellico. L’evoluzione delle tecnologie satellitari ne ha permesso la diffusione e oggi ci si è universalmente abituati a questo tipo di visione dall’alto, definita god’s-eye view, la vista di Dio. Come teorizzato da Hito Steyerl nel suo scritto In Free Fall: a Thought Experiment on Vertical Perspective, siamo la generazione della prospettiva verticale, che secondo l’autrice avrebbe sostituito la prospettiva lineare cambiando il nostro panorama visivo e il nostro pensiero: senza un orizzonte di riferimento l’uomo contemporaneo vivrebbe così una condizione di mancanza di terreno, esistendo nella condizione di free fall, ovvero di caduta libera.
L’immagine della caduta sintetizza perfettamente l’idea di assenza di corpo, il galleggiamento dovuto alla mancanza di punti di ancoraggio che caratterizza tanto la visione quanto il pensiero contemporaneo.
La vista dall’alto non è una vista esperienziale, è l’occhio meccanico che si contrappone al vivente, colui che percorre con il corpo i territori.
Nelle arti visive numerosi lavori analizzano criticamente il fenomeno: un esempio è Postcards from Google Earth dell’artista americano Clement Valla che rende esplicito il limite della visione dall’alto individuando e catalogando con degli screenshot diversi punti in cui il satellite fallisce la mappatura del territorio. Interrogandosi sul dilagare di tale panorama visivo, oggi massificato, vi si può rintracciare una certa familiarità con l’attuale sensazione di impotenza di fronte ai fatti, su cui non pare possibile esercitare influenza. Abituati a un corpo che come un lento pallone aerostatico galleggia intorno al globo e lo osserva dall’alto ci si è forse disabituati alla presenza di braccia da poter tendere verso oggetti e idee fisicamente spostabili.
Eppure, sebbene questa visione sopraelevata coincida con una forma di smaterializzazione del corpo che avvicina la vista a un’esperienza metafisica, nel caso dei droni ha un effetto molto fisico sui bersagli prescelti e nel caso della sorveglianza ha un effetto sulla vita del sorvegliati.
Un approccio critico al panorama visivo odierno, e alle sue conseguenze politiche, non può che invocare la necessità di uno sguardo multiplo. Rappresentativo è il lavoro presentato alla Biennale di Venezia del 2016 dal laboratorio di Forensic Architecture (FA), guidato da Eyal Weizman alla Goldsmiths University di Londra, che opera decostruendo l’architettura, in difesa dei diritti umani. Nelle immagini satellitari un pixel corrisponde in scala a una superficie di 50×50 cm, non è una grandezza casuale perché è la misura di un’apertura prodotta da un missile su un solaio. Significa che una foto satellitare non è in grado di provare se sia avvenuto o meno un bombardamento, perché l’immagine del missile è un punto nero che potrebbe essere classificato come rumore. 50×50 cm è anche la misura di un corpo visto dall’alto e quindi non è possibile dimostrare se nello stesso bombardamento ci siano stati morti o feriti.
Weizman e il suo team si sono serviti di alcune riprese video effettuate a Kabul a un palazzo esploso, che il governo sostenne essere stato distrutto da esplosivo di proprietà dei ribelli, per dimostrare che l’esplosione era in realtà opera di un drone dell’esercito. Grazie al video e alla misurazione della distanza del palazzo da cui le immagini sono state filmate sappiamo la reale versione dei fatti.
La necessità della verità coincide così con la necessità di immagini riprese dal basso, foto di anonimi, video di giornalisti e verifiche in situ, un incrocio di dati visivi ed esperienziali che fornisce un’immagine reale e una reale versione di ciò che è accaduto.
La necessità del contemporaneo è dunque questa, superare il limite della visione illimitata attraverso il ritorno prepotente del corpo, che con l’esperienza riscopre le sue possibilità. E ancora, la scelta di rivendicare il diritto di esercitare uno sguardo singolare, evitando di assumere quello dominante come se fosse innato.

 

Bibliografia
• Hito Steyerl, The Wretched of the Screen, Sternberg Press, 2012
• Reporting from the front. La Biennale di Venezia. 15ª Mostra Internazionale di Architettura, Marsilio, 2016

 

Chiara Fusar Bassini
Diplomata all’Accademia di Belle Arti G. Carrara di Bergamo,
è ora diplomanda presso la NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano,
dove ha frequentato il biennio specialistico di Arti Visive e Studi Curatoriali.
Opera sul confine tra produzione artistica e attitudine curatoriale.